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STORY

Racconto di Giorgio Olmoti.

Elaborazione racconto, elaborazione file audio

 

Giorgio Olmoti - laurea in lettere a Udine, corso di catalogazione a Villa Manin, dal 1992 lavora su storia e memoria con le fonti non convenzionali (iconografia, fotografia, cinema, musica, pubblicità, media). Nel 1995 con Alfomega lavora all’archivio Franco Pinna. Nel 1998 pubblica con Editori Riuniti Il Boom, che racconta gli anni del miracolo economico. Dal 2000 lavora presso una importantissima casa edititrice italiana. Nel 2002 pubblica Torino da bere per Stampa alternativa. Nel 2003 pubblica con Paravia Lavoro: uomini, macchine e tecnologie. Le fonti e la memoria sono l’oggetto della sua riflessione. Nel 2004 con BMG Ricordi pubblica Fabrizio De Andrè. Una musica per i dannati nella collana Le voci del tempo. Attraverso dodici canzoni ripercorre la storia dell’Italia repubblicana. Nel 2006 con Einaudi pubblica Il mestiere della fotografia sul linguaggio del fotogiornalismo. Partecipa al concorso di Radio 2 Una palla di racconto con Palla a missile, premiato al Salone di Torino e pubblicato da Fandango.
Nel 2008 pubblica un saggio su cinema e storia per La storia al presente, corso edito da Pearson. Nel 2009 per Editrice Zona pubblica CantaStoria, itinerario tra arte cronaca e costume che ripercorre cinquant’anni della storia italiana a partire dalle fonti musicali. Collabora, a partire dal mensile Frigidaire e fino a L’isola che non c’era, con diversi periodici, scrivendo di arte, fotografia e musica. Tiene da anni seminari presso le facoltà di Scienze della formazione e il DAMS di Torino sul rapporto tra i media e la storia. Vanta numerose collaborazioni con prestigiosi festival italiani, da Èstoria di Gorizia a Hispanica di Ivrea.

Dal 2009 lavora al progetto di Spa&Spa in qualità di autore di testi e copy. Dal 2010 si occupa anche di registrazione ed editing di prodotti audio e della scrittura e realizzazione di prodotti video. Inoltre realizza con l’associazione Pubblico 08 di Ivrea la mostra Come in un sogno a Chieri. Cura diversi progetti per le manifestazioni del 2011 di Torino 150.

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Un uomo, le sue mani, quello che ci passa attraverso, dalle botte al pensiero alla consapevolezza della persona alla forza alla debolezza. La localizzazione del dolore,

Tutto attraverso le mani, il racconto del corpo e la sua sensazione, il filtro della coscienza, gli ostacoli della ragione.

Chiave - Giorgio Olmoti
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Sabato - Giorgio Olmoti
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SABATO

Cenere. Illuminazione

 

Ho conosciuto storie che non posso raccontare, storie segrete che devo portare con me nella tomba. Storie che ho promesso un tempo, e mantengo la promessa io, anche adesso, che ho quasi novant’anni anni, adesso che le mie ossa cominciano a sgretolarsi e a diventare cenere prima che il fuoco le bruci.

Quanta rabbia, quanto dolore in questa mia vita ho dovuto attraversare, lo senti nelle mani, lo senti il dolore di aver dovuto lasciare tutto, di aver cominciato una strada in salita, lo senti il dolore di non aver capito che cosa stava succedendo.

Mi hanno portato via che avevo appena otto anni, una famiglia perbene, una casa in campagna, molta dolcezza e molta forma, sembrava tutto luccicante e perfetto, colorato d giallo ROSSO azzurro verde vivo, una vita proprio come un bambino la desidera, una vita di panini GRASSI E DOLCI, di ciambelle e budini di riso, una vita di miele in cui accudivo le mie api per diletto…

E dopo invece, quando tutta l’IRA dell’orrendo comandante si era scatenata, quando ogni lacrima si era asciugata per noi, quando avevamo ormai capito che cosa sarebbe davvero successo, avevamo cominciato a reagire, a modo nostro, silenziosamente ma facendo tesoro di ogni umiliazione, di ogni furto e diventando forti di quella stessa polvere e facendone il cuore del tesoro su cui poggiamo i nostri destini, che non è d’ORO e che nessuno può usurpare, quello che possiamo portarci dietro come fardello leggero e invisibile all’avido conquistatore, la conoscenza.

Allora, quando ogni musica era cessata e stentorea suonava un sordo DO di campana bombardata, io sentivo quel suono, sempre, sempre, sempre… era la campana del campo, è lei stessa un bombardamento, è lei stessa una condanna a quella camera, a quella stanza silente dove si entra con una minima parvenza di umanità e si esce finalmente morti.

Finalmente morti.

Lo senti quanto il mio COCCIGE abbia sopportato il peso di un corpo che non c’era già più e tuttavia non si rassegnava a finire.

Lo senti, lo senti, la campana, il dolore, la strana normalità di quelle stradine polverose, tutte ordinate come un villaggio dell’est, tutte disposte in una griglia di scacchi grigi e puliti, e grigie le persone che su quei viali camminavano, grigio il filo spinato che dissanguava ogni speranza, grigia la pelle senza nutrimento, grigi i giorni passati a cucire ore e minuti in una scelta impossibile per un uomo sano, quella di morire per sopravvivere.

E quella rabbia nei corpi e nei volti paonazzi ogni volta che si usciva dallo schema macchina e che un uomo riprendeva colore, e di nuovo spezzare, seppellire, far tornare grigio, tutto grigio, tutto pianamente disumano, in nome del DIO DELLA GUERRA.

Solo le donne, loro non possono nascondere tutta questa aberrazione, così normale, così scontata. Nei loro corpi, nei loro volti, le tracce indelebili di una violenza iraconda che deturpa i lineamenti. La bellezza cancellata degli altri diventa il loro unico specchio, la loro stessa fottuta condanna a una diuturna ferocia.

Domenica - Giorgio Olmoti
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DOMENICA

Carne. Non ti aggrappare, non resistere

 

Ciao Samuel, caro.

Ho sentito a lungo parlare di te, dicono che guardi dentro l’anima della gente, dicono che sai arrivare faccia a faccia con l’anima anche la più buia, dicono che dovevo provare.

Sto venendo a conoscerti, voglio provare a sentire dentro la tua pelle se sono ancora vivo.

Ho conosciuto molti uomini e molte donne, ho conosciuto corpi non facilmente riconoscibili al tatto e all’olfatto, corpi maschiofemminefemminemaschio e viceversa, corpi di genere nuovo, giovani, lucidi, eleganti, flessuosi, corpi metallo e silicone, con molti nomi fantasiosi.

Ho conosciuto l’innocenza dei fanciulli e la LUSSURIA oscena degli impotenti, ho conosciuto il vizio dentro ad ogni casa,  dentro spazi mai lasciati vuoti di buone maniere, dentro vite con forme molto perbene e carne molto poco perbene con labbra pendule e tette nuove di zecca ogni cinque anni.

Ho voluto sapere cosa ci fosse dietro l’ARGENTO che mi offrivano, ho voluto vedere quanto nero potesse diventare quell’argento, ho bevuto ambrosie sconosciute nella coppa della libidine violenta, sono stato schiavo e padrone e ho voluto vedere bene i colori di ogni incontro e le pieghe di ogni ruga, dall’ARANCIONE terra impastata su visi sfatti al nero vino forte, dal buio del lupo all’accecante bianco del mattino.

Nei miei fianchi ho piantato fiori quotidiani, ho sopportato carichi pesanti di orge senza fiato, fino a cadere esausto, il corpo sfinito, insensibile la zona LOMBARE come un animale sollevato al macello e battuto fino a privarlo della sensibilità dei nervi.

Ero io, proprio io, quello che offriva nutrimento a tutti questi maiali? Ero proprio io, il mio corpo senza suono, RE RE RE RE RE, come una beffarda canzone d’amore diventata adesso un suono informe, disarticolato, muto.

E’ proprio il mio questo corpo sordocieco che si lascia attraversare indifferente da tutti questi altri corpi? Che tocca senza essere toccato, che tace all’attenzione di persone sconosciute e si lascia corrompere, corrodere, decostruire da questo perverso DIO DELLE ARTI del dolore?

E cosa sono io adesso, né maschio né femmina né alcun’altra cosa viva, solo un ammasso inferiore di acqua e PROTEINE, un mostro scomposto e senz’anima che diventa vuoto di emozione. Sono proprio io quell’unico che ha deciso di restare nonostante tutto vivo, nonostante tutta

questa morte?

Lunedì - Giorgio Olmoti
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LUNEDI

 

Ali. Proprio qui e proprio ora

 

Ti chiami? Come, non ho capito, che nome strano, ma da dove vieni? Non ti avevo mai visto da queste parti, io conosco tutti qui. Io? Ti racconto chi sono? Mah, sembra facile…

Sai, sono allergica ai LATTICINI, alla soia, al mais, al glutine, alla manioca, alle graminacee, al pomodoro, alla pesca, al kiwi, all’aglio, all’ulivo e poi sono intollerante al glicine, alla tapioca, alle uova. Ora che ci penso, io non ho mai visto gli ulivi, chissà perché sono allergica proprio a loro.

Io vivo in città da sempre, non ho la macchina, mio padre e mia madre hanno sempre lavorato in fabbrica. Ma come sono fatti gli ulivi? Dove nascono, da piccola me li ricordo, mi ricordo di averli visti in un libro di prima elementare, mi ricordo quelle pagine piene di verde e di GIALLO, mi piacevano, mi piaceva guardarle. Non sapevo ancora leggere ma conoscevo già tutti i trucchi negli sguardi delle persone, sapevo riconoscere ogni cattiveria, ogni SUPERBIA, ogni violenza, ogni sospetto, ogni malizia, ogni ipocrisia. Una piccola strega. Facevo mille esperimenti di magia e inventavo mille formule.

Quando ho fatto esplodere il termometro sul fuoco, per esempio, me lo ricordo…

Scusa, ti do fastidio? lo so che parlo tanto e che nel mio racconto le parole girano come la spirale infinita di un OMBELICO, è che mi viene, mentre tu MI senti anch’io mi sento.

Dicevo, quando ho fatto esplodere il termometro e tutto il MERCURIO è saltato via in mille palline minuscole e perfette, mio padre è arrivato, sentendo quella piccola esplosione. Ho visto i suoi occhi, che amavo perché sapevano ridere di tutto, di nuovo sorridere piano. Era un DIO DELLA GIOVIALITÀ. Che parola antica, dici? Lo so ma lo era anche lui, un uomo antico, un signore perbene con la testa fra le nuvole. Quella volta l’ho di nuovo visto ridere del mio innocente esperimento e cancellare con quegli occhi ogni mio tormento.

Quanto l’ho amato quello sguardo, e quanto ho desiderato in questi anni rivederlo ancora, quanto l’ho cercato nelle persone che incontro per strada, mansueto, dolce, mite, sempre come in attesa di una carezza che forse un giorno gli avrei dato e che non gli ho dato mai, chissà perché intimidita dalla sua stessa timidezza e riserbo, io che sono dannatamente sfacciata sempre proprio lui non lo sfioravo nemmeno.

Solo quando non poteva più sentirla quella carezza gliel’ho data, sulla mano, mentre gli regalavo le foglie magiche di quella terra che aveva tanto amato e gli davo un impossibile viatico perché la sua anima volasse proprio là, dove l’ho trovata ieri in forma di cavolaia che leggera mi volava intorno, di nuovo e per un attimo lo so, ridendo e pizzicandomi sul naso, proprio come quando ti scende una lacrima.

Martedì - Giorgio Olmoti
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MARTEDI

Prenditi cura di me

 

C’era un sacco di gente quel giorno alla mia laurea, un sacco davvero. Era arrivata con l’autobus anche quella comitiva vagante e chiassosa dei miei parenti vicini e lontani. Li avevo tenuti lontani fino a quel giorno, ma adesso non era più possibile, dovevo condividere quell’illustre momento della mia vita.

Una festa, con mio padre che avrebbe certamente portato tutti i suoi strumenti, la sua chitarra, le sue trombette, i suoi stupidi flautini e pernacchi. Note senza criterio e senza gusto gettate in pasto a quell’immondo pubblico, FA, Re bemolle, SI, SI minore, Sol diesis e via andare in un concerto senza nota alcuna, muto, freddo e spento come lo STERNO di un uccellino schiacciato sotto un grosso ramo crollato a togliergli senza pietà l’ultimo sottile respiro.

Non lo sopportavo mio padre, con tutta sta voglia di festa, questo continuo cercare l’approvazione di tutto e brillare di quella luce falsa e bacata di chi non si racconta la verità e si veste ogni giorno con l’illusione che nessuno se ne accorga; basta, basta, basta stronzate.

Stonato e finto come una moneta di STAGNO; non lo sopportavo, non sopportavo la sua famiglia, le sue sorelle, quelle perfide orribili cugine che continuamente si confrontavano con la mia incapacità di essere brillante, e loro sì, di essere bella, e loro si, di essere interessante per un solo qualunque aspetto della mia vita, e loro invece sempre perfette, al centro dell’attenzione, pronte a sfoggiare l’ultima conquista intellettuale, ovviamente, sfacciatamente.

Ma adesso basta, adesso avrebbero finalmente visto che anch’io ero capace di ottenere risultati davvero, avrebbero visto cosa voleva dire finalmente ottenere quello per cui avevo lottato. Le avrei fatte diventare VERDI per la rabbia, verdi di bile, verdi verdi verdi.,

Notti e notti passate a studiare, a cercare di decrittare una lingua veramente straniante, ad aspettare che la luce potesse dare finalmente voce al mio strano modo di non capire e a porre fine a quello strazio di studio con i respiri corti, e finalmente quella rabbia avara che mi aveva fatto da nume tutelare aveva vinto. Eccolo il mio tributo alla gloria di famiglia, ecco le mie trombe, ecco la musica che volevate sentire.

Scendete da quegli autobus roboanti e dalla vostra boria adesso, adesso venite a vedere cosa sono stata capace di fare…

E invece…

Venite a offrire i vostri orrendi tributi al DIO DELLA PESCA, al quale finalmente e liberamente adesso posso bestemmiare.

Guarda, dio maledettissimo e ingiusto che assassini ogni speranza ingannandola con cori di angeli. guarda dove è finito tutto quel tempo, tutto quel disgusto, tutta quella rabbia, tutta quella fatica, qui, in questa giornata splendida che nulla potrà rovinare.

Quanto ho meditato la mia vendetta, quanto ho accarezzato quella luce che si accenderà sulla vostra invidia, quanto ho preparato quella seta sottile che vi passerà accanto senza degnarvi di uno sguardo, stupidi pesci d’acquario in attesa del retino che vi catturerà..

E invece quelle parole, assurde, che non riuscivo neanche a ripetere, e tutto lo sfavillio in un attimo scomparire, annientato dalla mediocrità di sempre:

Voto 88

Laurea in Scienza della produzione animale

Complimenti dottoressa.

88, triste e inutile, offensivo, beffardo.

E di nuovo in pasto a voi pescecani che mi avete divorato il cuore per tutta la vita, ecco adesso godete, questa è la mia ennesima e definitiva sconfitta.

Mercoledì - Giorgio Olmoti
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MERCOLEDI

Senza il sé, c’è solo la pace

 

Avevo mangiato troppo, lo sapevo, non serve che adesso lei mi dica come mi dovevo comportare, qual è la corretta alimentazione, e bla bla bla, tanto sono tutte cose che conosco alla perfezione.

Lo sa che sono un fior di professionista, lo sa che gestisco un ufficio di centocinquanta persone, lo sa che sono tutti ai miei piedi?

Quando entro al mattino tutti mi riveriscono, mi seguono venti segretarie, lacchè, serventi vari, tutti hanno bisogno della mia approvazione, del mio sguardo, della mia firma.

E lei adesso mi sembra così irriverente, così lontano, ma lo sa con chi sta parlando?

Lo sa che ho molte auto, ho una villa a Vancouver, ho molti maggiordomi esteri, molti palazzi in affitto e schiere di poveracci che sfrutto come posso chiedendogli i soldi in nero e guadagnando sul loro sciocco vezzo di volere ad ogni costo mantenere la dignità? Le fa GOLA qualcuna delle mie segretarie?

Lo sa che faccio molta beneficienza, mi accusano di INGORDIGIA finanziaria ma in realtà è solo voglia di cose belle, mi piace circondarmi di splendore e rifulgere a me stesso, mi piace la bella vita, piena di amici, di belle donne, di brivido ma senza esagerare, sempre discreti, sempre composti.

Vedo che mi capisce, vedo che ha capito cosa sono venuto a cercare da lei.

Devo essere in perfetta forma, non una sbavatura di grasso, non un muscolo fuori posto, devo essere brillante, efficiente, pieno di energia, il DIO DELLA LONGEVITA’, non posso mica permettermi di perdere splendore e quindi attenzione e contatti?

Devo essere adorato per avere tutta la loro approvazione senza riserve, devo essere un gran signore in abito sartoriale, devo essere dio, bellissimo e splendente, la pelle colore del RAME e i capelli d’argento, devo essere ricchissimo e ladro, sordo come un diamante e crudele e trasparente come il mare più lontano e più gelido.

Devo poter essere sempre all’altezza dei compiti che mio padre mi diede, tempo fa, davanti al suo mare preferito, quello di Antibes, con un piattino di mitili e un altro di LEGUMI accanto.

Diceva che quel mare BLU era musica, ineguagliabile bellezza per le sue orecchie, SOL si sol si, la sua goccia risplendente, il suo rifugio, la sua alba..

Ma che fa, non mi ascolta? Le ripeto, io sono proprio qualcuno sa?

Cosa dice? Il mio corpo è stanco, una situazione difficile, forse una massa? Una massa al tatto?

Ma io? Ma lo sa con chi sta parlando? La smetta, cosa dice! Il mio corpo è sanissimo, non può ammalarsi, è impossibile!

Lei è carne da macello, torni nella sua ombra, torni a vivere in uno dei miei appartamenti per poveracci, torni a sparire per sempre, maledetto lei e le sue manine sapienti.

Incenerisca all’istante e io splenderò per sempre.

Giovedì - Giorgio Olmoti
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GIOVEDI

Acqua, sabbia

 

E’ morto, è morto, ma non lo vedi che l’hai ammazzato?

La smetti di continuare a prenderlo a calci?

Adesso basta, ti sei fatto pure il selfie là davanti con il cadavere.

Lo so che volevi fargliela vedere a quegli altri, per farli schiattare d’INVIDIA, e per dimostrargli che adesso anche tu, il piccolo, quello sempre schernito per quella grossa voglia VIOLA sul collo a forma di labbra, come il bacio di un vampiro, tu che da sempre avevi dovuto sottostare a quegli scherzi atroci taci adesso tu che sei il piccolo, taci, taci, taci, e ingoia.

Ecco adesso li voglio vedere tutti lì a bocca aperta, questo piacerà a tutti, dovranno tacere e finalmente diventerai il DIO DELLA POPOLARITA’, quello che chiamano tutti, quello che salutano quando passi per strada, quello che forse ti regaleranno anche un bel vestito, come lo sognavi da piccolo, da gangster, con quel colletto stretto e senza cravatta, la camicia a fasciare il petto stretto e sodo. Ecco, adesso dovranno rispettarti, e dire a tutti che questo l’ho fatto io.

Ma che dici? Non è ancora morto? ma se gli ho scaricato addosso una tonnellata di PIOMBO, ma sei sicuro?  Ma si, non la vedi quella schiuma rossa, quelle bollicine. Dài coprilo per favore non lo posso vedere, lo zigomo aperto con un colpo di pistola sembra un altro occhio, cazzo, il TERZO OCCHIO, mi guarda, non lo sopporto.
E adesso che facciamo?

Cazzo non muore questo bastardo, non vuole morire, e adesso come faccio?

Non me lo posso permettere, niente morto, niente rispetto, niente vestito. Questo è vivo, ha diciotto anni, racconterà della mia infamia, racconterà che l’ho fatto uscire una sera, io che sono suo amico, da piccolo, è mio fratello, si dice, ma che fratello e fratello, io voglio diventare un boss, e lui si è fottuta la moglie del mio capo.

Ho pensato che gli faccio un favore al mio boss ammazzandolo mentre lui è al mercato a lavorare tra FRUTTA e VERDURA, cosi nessuno potrà mai collegarlo a lui…

Ma adesso, capisci, questo qui non muore, e non ce la faccio, mi guarda con quell’occhio maledetto, pensavo fosse facile, ma tutto quel sangue…

Sono stanco, non ho forza, e quegli altri sono scappati, hanno avuto paura della morte, della rabbia furiosa.

Adesso mi sono avvicinato, non mi sento più un killer, adesso mi sento solo e basta, non c’è nessuno adesso, solo io, e lui che rantola.

Mi chiede perché, ma non lo sapevi, eravamo fratelli, non lo sapevi prima, e quella strana dolcezza con cui mi guarda mi sta facendo male dentro.

Non mi sta odiando, è solo sorpreso, mi guarda e il suo sguardo mi dice che è ancora mio fratello.

Un dolore, solo un attimo, l’ho sentito dentro quell’occhio, poi ho preso una pala che avevamo usato per fargli scavare quella stupida fossa che non avrebbe coperto un cane, e gliel’ho sbattuta sulla faccia, quella stupida faccia innocente. Ha fatto un rumore strano, duro, sonoro, come il LA della cornetta del telefono in attesa, tu.. tu…tu…tu…tu…

Che cazzo guardi, stronzo.

VENERDI

Se hai ragione, non hai bisogno di gridare

 

Amici, tutti al Revolution a festeggiare il mio compleanno, una sera niente alcolica e niente afosa di fine estate. Cielo blu INDACO jeans e nessuna voglia di camminare, due canne in tasca per raccontarci che siamo ancora capaci di gesti rivoluzionari, che siamo quelli che hanno visto, che la nostra generazione ha capito in che direzione si doveva andare.

Questo è quello che andiamo raccogliendo, un pezzo di fumo in una tasca e pensare che sia ancora rivoluzionario, pacchetti per preparare meticolosamente sottili sigarette con scientifici filtrini e cartine della migliore qualità, sacchetti finti hippie per ricordarci di che colore erano le nostre speranze, e i nostri figli abortiti in un’ACCIDIA che non ammette vittorie, da cui non escono mai, larva che non potrà mai crescere perché se crescesse ucciderebbe noi, ci costringerebbe a diventare vecchi, e quindi per sempre larva bambina. Questo siamo stati capaci di trasferire, questo il passo dei nostri destini futuri, altro che visione, altro che speranze di rivoluzione, uno sporco mondo arrugginito come un pezzaccio di FERRO di lamiera in uno sfasciacarrozze di piccola città in un mondo altro.

Abbiamo sognato sogni d’acqua e leggerezza e amore e abbiamo partorito come vacche all’ingrasso, ingurgitando troppi CARBOIDRATI e difendendo una salute impossibile da mantenere se mentre benedici il frutto del tuo orto bio inquini le FONTANELLE con cui lo annaffi con droghe di ogni specie. Questo siamo noi, una contraddizione in termini, uno sporco compromesso con il benessere, uno schiaffo al DIO DELLA FORTUNA che ci aveva benedetto con la vita. Questo abbiamo fatto della nostra vita, un assoluto e ineguagliabile privilegio, che difendiamo uccidendo e rendendo schiavi i nostri stessi figli. Tu, che mi ascolti mentre parlo e cerco invano parole giuste per descrivere il mio disgusto di me stesso, tu che adesso curi la mia ferita più profonda senza chiedermi niente in cambio, tu che ascolti e mi regali uno sguardo senza giudizio ma anche senza allegria, tu portati via quello che resta del mio cuore, quello che ancora suona nella mia anima quasi vuota e sfinita, un accordo in SI minore per arpa e silenzio. Tu non giudicarmi, perfavore, ma se riesci, ascoltami ancora

Venerdì - Giorgio Olmoti
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